a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 13 ottobre la chiesa celebra san Romolo di Genova, era originario di Villa Matutiæ (antico nome romano della città di Sanremo) nacque agli inizi del V secolo. Fu eletto 5° vescovo di Genova nel 400 d.C. Per sfuggire alle invasioni longobarde di Genova ritornò nella terra natale. Poiché anche il Ponente ligure era vittima di incursioni e saccheggiamenti, da parte dei saraceni, Romolo fu attivo nell’organizzare la difesa armata della città di Villa Matutiæ (per questo motivo è rappresentato con la mitra e la spada) e nel ritirare la popolazione sulle alture alle spalle di Villa Matutiæ, per scampare agli attacchi saraceni. Non trascurò assolutamente la vita spirituale dei suoi concittadini (di cui era anche vescovo, in quanto all’epoca tutta Liguria era sotto la diocesi di Genova) e considerò la sua presenza in quelle terre come una utile visita pastorale per rinvigorire e promuovere la fede cattolica, e animare la vita cristiana della popolazione. Anziano, si ritirò in penitenza in una grotta nell’entroterra, ai piedi del Monte Bignone, (sul monte che prende il suo nome). In occasioni di difficoltà, attacchi da nemici, carestie, calamità varie, i matuziani (sanremesi) si recavano in pellegrinaggio presso la grotta dove viveva il santo, pregando e chiedendo la protezione del Signore. Alla sua morte, avvenuta il 13 ottobre 440, il suo corpo fu sepolto nella città di Villa Matutiæ, ai piedi di un piccolo altare usato per le prime celebrazioni cristiane (che sorgeva nello stesso posto ove ora, in Sanremo, è la Basilica di San Siro) e qui è stato venerato per molti anni. Intorno al 930 il suo corpo fu traslato a Genova, per il timore delle numerose scorribande saracene, e venne sepolto nella Cattedrale di San Lorenzo. L’occasione della traslazione spinse i sanremesi ad edificare, nel luogo di sepoltura originario, una chiesetta (ricostruita nel XII secolo e oggi insigne Basilica Collegiata Cattedrale). Essa fu consacrata nel 1143 dall’Arcivescovo di Genova il cardinale Siro de Porcello e dedicata a quel San Siro che in quello stesso luogo aveva fatto costruire, alcuni secoli prima, il primo altare della città e sotto al quale collocò le spoglie del Beato Ormisda (sacerdote dell’antica pieve di Villa Matutiæ) evangelizzatore del ponente ligure e suo maestro. I matuziani in onore del loro vescovo e difensore, che li aiutò, difese e protesse in terra, decisero di acclamarlo proprio patrono e nel 1188 cambiarono il nome pagano della città da Villa Matutiæ in “Civitas Sancti Romuli” (Città di San Romolo), che, per abbreviare divenne “Sancti Romuli”, e per derivazioni di pronuncia dialettale si tramutò in “San Rœmu”, che mutò, poi, intorno al Quattrocento, nella forma attuale “Sanremo”.
13 ottobre: santa Chelidonia, nacque a Cicoli (Rieti) il 1 ottobre 1077 circa. Prima dei suoi 20 anni, Chelidonia (in greco: rondine), lasciò la casa paterna desiderosa di dedicare la propria vita alla contemplazione di Dio, eleggendo come luogo di destinazione proprio la Valle Sublacense già attraversata da Benedetto cinquecento anni prima, per stabilirsi in una grotta di Morra Ferogna, sui Monti Simbruini, due miglia da Subiaco. In questi posti, già tanto cari a Benedetto e Scolastica da Norcia, qui la Santa cicolana condusse una vita eremitica, per 59 anni, fatta solo di contemplazione, preghiera e digiuno. Chelidonia interruppe la sua vita eremitica solo in un’occasione, tra il 1111 e il 1122, per un pellegrinaggio a Roma, per visitare le tombe degli Apostoli, che si concluse, di ritorno a Subiaco, con la vestizione dell’abito benedettino, conferitole dal cardinale Conone, vescovo di Palestrina. Per 30 anni ancora, Chelidonia rimase nella sua grotta, fino al giorno della morte, avvenuta nel 1152, nella notte tra il 12 e il 13 ottobre. La tradizione vuole che, in occasione del suo trapasso, una portentosa colonna di luce si sollevasse da questo luogo, lasciandosi scorgere in tutte le campagne circostanti e, addirittura, risultando visibile fino a Segni, ove si trovava il papa Eugenio III, artefice probabilmente della successiva canonizzazione della mistica eremita. Morì il 13 ottobre 1152; patrona di Subiaco.
13 ottobre: beata Alexandrina da Costa di Balasar, nacque a Balasar (Portogallo) il 30 marzo 1904. Venne educata cristianamente dalla mamma, insieme alla sorella Deolinda. Alessandrina rimase in famiglia fino a 7 anni, poi fu inviata a Pòvoa do Varzim in pensione presso la famiglia di un falegname, per poter frequentare la scuola elementare che a Balasar mancava. Qui fece la prima comunione nel 1911, e l’anno successivo ricevette il sacramento della Confermazione dal Vescovo di Oporto. Dopo diciotto mesi tornò a Balasar e andò ad abitare con la mamma e la sorella nella località “Calvario”, dove resterà fino alla morte. Cominciò a lavorare nei campi, avendo una costituzione robusta: teneva fronte agli uomini e guadagnava quanto loro. La sua fu una fanciullezza molto vivace: dotata di un temperamento felice e comunicativo, era molto amata dalle compagne. A 12 anni però si ammalò: una grave infezione la portò ad un passo dalla morte. Superò il pericolo, ma il fisico resterà segnato per sempre da questo episodio. Aveva solo 14 anni ed era una bella ragazza, quando per sfuggire a tre uomini, penetrati nella sua casa per insediarla, si era buttata dalla finestra per salvare la sua purezza. Non guarì più dal terribile colpo subìto e, a 20 anni, si trovò paralizzata nel suo letto per la mielite alla spina dorsale. Fino al 1928 essa non smise di chiedere al Signore, mediante l’intercessione della Madonna, la grazia della guarigione, promettendo che, se fosse guarita, sarebbe andata missionaria. Ma, appena capì che la sofferenza era la sua vocazione, l’abbracciò con prontezza. Risalgono a questo periodo i primi fenomeni mistici, quando Alessandrina iniziò una vita di grande unione con Gesù nei Tabernacoli, per mezzo di Maria Santissima. Dal 27 marzo 1942 in poi Alessandrina cessò di alimentarsi, vivendo solo di Eucaristia. Nonostante le sue sofferenze, ella continuava inoltre ad interessarsi ed ingegnarsi a favore dei poveri, del bene spirituale dei parrocchiani e di molte altre persone che a lei ricorrevano. Il 12 ottobre volle ricevere l’unzione degli infermi e prima di esalare l’ultimo respiro la si sentì esclamare: «Sono felice, perché vado in cielo». Morì il 13 ottobre 1955.