a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 9 novembre la chiesa celebra la Dedicazione della Basilica Lateranense, il palazzo del Laterano, proprietà della famiglia imperiale, diventò nel secolo IV abitazione ufficiale del Papa. La basilica adiacente, dedicata al Santissimo Salvatore, fu la prima cattedrale del mondo: vi si celebravano specialmente i battesimi nella notte di Pasqua. Dedicata poi anche ai due santi Giovanni, Battista ed Evangelista, per molto tempo fu considerata la Chiesa-madre di Roma e ospitò le sessioni di cinque grandi Concili ecumenici. Le Chiese di tutto il mondo, unendosi oggi alla Chiesa di Roma, le riconoscono la «presidenza della carità» di cui parlava già sant’Ignazio di Antiochia. Similmente avviene per la festa della Dedicazione della chiesa cattedrale di ogni diocesi, alla quale sono «legate» tutte le parrocchie e le comunità che ne dipendono. In ogni edificio-chiesa dedicato a Dio si celebra quel «mistero di salvezza» che opera meraviglie in Maria, negli Angeli e nei Santi. Quella di oggi è una festa del «Signore». Il Verbo, facendosi carne, ha piantato la sua tenda fra noi (cf Gv 1,14). Cristo risorto è presente nella sua Chiesa: ne è il Capo. Le chiese in muratura sono un segno di questa presenza di Cristo: è lui che ivi parla, dà se stesso in cibo, presiede la comunità raccolta in preghiera, «rimane» con noi per sempre (Sacrosantcum Concilium 7). La Dedicatio, la Dedicazione, è la cerimonia mediante la quale una chiesa viene destinata al culto. Per i primi tre secoli del cristianesimo non abbiamo testimonianze: dapprima i cristiani celebravano le loro adunanze e il sacrificio della messa nelle case private e talora nella basilica domestica, grande aula di cui erano fornite molte case patrizie, altre volte sulle tombe dei martiri nel loro anniversario, e durante le persecuzioni a Roma, nelle catacombe. Concessa da Costantino la pace alla Chiesa (313), cominciò la costruzione delle basiliche e chiese, e la loro dedicazione consisteva principalmente nella messa, preceduta e seguita da discorsi tenuti dai vescovi sul culto divino, e in elogio del fondatore della basilica: S. Ambrogio accenna pure ad aspersioni con acqua benedetta usate in queste occasioni e con tali espressioni da far supporre essere ciò consuetudine antica. Ben presto, allo scopo di rendere più venerande le basiliche e onorare di più i santi, i cui corpi erano seppelliti fuori città, si cominciarono a trasferire sotto gli altari delle nuove chiese le loro reliquie, e allora la parte più solenne della dedicazione delle basiliche furono le trionfali processioni con le feste che ci hanno lasciate descritte sant’Ambrogio, Sozomeno e san Girolamo: così la depositio martyrum si confuse con la dedicazione delle chiese, e divenne legge il riporre sotto gli altari le reliquie dei martiri. Altre cerimonie si aggiunsero in seguito: in Oriente specialmente l’unzione dell’altare col crisma, e in Occidente le lustrazioni con l’acqua benedetta. San Gregorio Magno, dando istruzioni a san Mellito, vescovo di Canterbury, indica il modo come purificare i templi pagani per farne chiese cristiane, e parla delle abluzioni con acqua espressamente benedetta, in cui è anche sale, vino e cenere, acqua detta poi gregoriana, probabile imitazione del rito di Mosè (Esodo XXIV, 6). Altra cerimonia antica fu l’iscrizione sul pavimento dell’alfabeto greco e latino con una grande X, e che avendo la forma di croce decussata e della prima lettera del nome Χριστός (Cristo), servì a indicare che Cristo prendeva possesso di quel luogo; il ricordo poi della frase dell’Apocalisse, XXII, 13 “io sono l’alfa e l’omega”. Propagandosi così e fondendosi gli usi orientali e quelli occidentali, si venne a stabilire quel complesso di riti che fanno oggi della dedicazione delle chiese una delle più solenni e significative cerimonie ecclesiastiche, riservata per la sua importanza ai vescovi fin dal V secolo. Le reliquie da deporre nella nuova chiesa, il giorno avanti alla dedicazione vengono riconosciute dal vescovo, chiuse col suo suggello e conservate in una cappella esterna: la notte, davanti ad essa, si fanno preghiere speciali. Il giorno fissato, il vescovo col suo clero comincia la funzione all’esterno della chiesa, e, facendo il giro tre volte attorno ad essa, ne asperge le mura; dopo varie preghiere entra nella chiesa col solo clero, e chiusane la porta, recita le litanie dei santi e scrive nel pavimento, sulla cenere, gli alfabeti latino e greco, poi asperge con l’acqua gregoriana l’altare sette volte, e tre volte le pareti interne della chiesa: tutte queste aspersioni sono unite a lunghe orazioni di origine assai antica. Quindi il vescovo col clero esce dalla chiesa, va alla cappella ove sono conservate le reliquie, e si forma la solenne processione con esse, cui prende parte il popolo. La processione fa il giro attorno alla nuova chiesa, cantando Kyrie eleison: quindi si ferma davanti alla porta, e ivi il vescovo tiene un discorso di circostanza. Consacrato poi col crisma il piccolo sepolcro dell’altare, il vescovo vi chiude dentro le reliquie, e allora si compiono le numerose unzioni dell’altare, durante canto di antifone e salmi. Consacrato l’altare, il vescovo consacra pure le pareti interne della chiesa, facendo su esse, o sulle colonne o sui pilastri, dodici unzioni col crisma. Pulito poi l’altare e rivestito dei suoi ornamenti, vi si celebra la messa solenne, e così ha fine la cerimonia.
09 novembre: santa Elisabetta della Trinità (al secolo Elisabeth Catez), nacque nel campo militare di Avord (Francia) il 18 luglio 1880, primogenita del capitano Joseph Catez e da Marie Rolland. Il padre di Elisabeth morì improvvisamente quando lei aveva 7 anni. La piccola “Sabeth”, come la chiamava chi la conosceva, aveva un temperamento fiero e impetuoso, perfino collerico, ma anche molto ardente nei buoni desideri, la bambina modificò radicalmente il suo carattere quando la mamma le spiegò che, per fare la “prima comunione”, bisognava poter offrire a Gesù un cuore docile e buono. Cominciò a prestare servizio nel coro parrocchiale e a fare gesti di carità concreta, quale l’assistenza ai malati e insegnare il catechismo ai bambini che lavoravano in fabbrica. A 17 anni si sentì chiamata a diventare Carmelitana scalza, ma la madre le negò il consenso, proibendole qualsiasi rapporto col monastero, fino alla maggiore età. A 21 anni entrò nel Carmelo di Digione il 2 agosto 1901, prendendo il nome di Elisabetta della Trinità. Questo nuovo nome che si era data era legato al rapporto che lei stessa aveva instaurato con san Paolo, sua guida illuminatrice sulle strade del Signore. Nel 1905 venne colpita da un morbo devastatore, il morbo di Addison, che allora era una malattia incurabile, che la pose “su un altare di dolore”. La sofferenza era così atroce da provocarle persino, in certi momenti, la tentazione del suicidio, ma la superava con dolcezza al pensiero d’essere continuamente guardata e custodita dall’immenso amore del suo Dio. Perciò, negli ultimi mesi di vita, la udivano spesso ripetere le parole di santa Angela da Foligno: «Dove abitava Gesù, se non nel dolore?». Visse così la sua malattia, come un’offerta sacra, arrivando al punto di preoccuparsi lei per Dio, tanto da volerlo quasi consolare e rassicurare, dicendo: «Mio Dio, non preoccuparti!». Le sue ultime parole furono: «Vado verso la Luce, l’Amore, la Vita!». Morì il 9 novembre 1906, a 26 anni.