Il cittadino straniero che si trova in Italia e che è stato condannato nel Paese d’origine al carcere, non dev’essere consegnato all’autorità giudiziaria del proprio Stato che ne ha fatto richiesta tramite mandato di arresto europeo, senza che sia stato preventivamente accertato di poter escludere il pericolo di sottoposizione dello stesso a trattamenti inumani e degradanti, come quelli derivanti dal sovraffollamento. È quanto stabilito dalla sezione feriale della Corte di cassazione in data odierna con la sentenza n. 39400 che ha accolto il ricorso di un cittadino rumeno condannato per furto aggravato e continuato. I giudici di legittimità ritengono violata dalla Corte d’appello di Torino, che aveva assecondato la richiesta delle autorità rumene, la normativa in materia in quanto è noto il generale problema del sovraffollamento delle carceri di quel paese come risultante fra l’altro da un rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura del 24 settembre 2015. Peraltro, la giurisprudenza della cassazione in materia di mandato d’arresto europeo, cosiddetto esecutivo, è univoca nel ritenere che la «condizione di rischio connessa a problemi di tipo strutturale che possono tradursi nella sottoposizione dei detenuti a trattamenti inumani e degradanti, evidenziata dalla sentenza Vasilescu c. Belgio del 25/11/2014 della Corte europea dei diritti dell’uomo, impone all’autorità giudiziaria richiesta della consegna di verificare in concreto la sussistenza di tale rischio, correlata alla condizione degli istituti carcerari dello Stato di emissione, attraverso la richiesta di informazioni individualizzate allo Stato richiedente relative al tipo di trattamento carcerario cui sarebbe, specificamente, sottoposto il soggetto interessato». Ciò impone che la Corte d’appello del capoluogo piemontese dovrà assumere adeguate informazioni di interesse dello stato di emissione, dandone conto nell’eventuale provvedimento di consegna. Non vi è dubbio, per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, che una decisione del genere possa scatenare polemiche tra gli xenofobi e coloro che fomentano il razzismo nel Nostro Paese e che vorrebbero immediatamente espulso chiunque, non italiano, si trova sul territorio nazionale, ma per coloro che invece hanno a cuore i diritti umani o comunque rispettano la dignità della persona – e, siamo convinti, siano la maggioranza dei nostri concittadini- si tratta di un significativo precedente che nell’applicare alla lettera la norma, potremmo definire ineccepibile, in quanto la legge italiana in materia non fa altro che recepire il dovere di assicurare il rispetto della persona in quanto tale a tutti i livelli e, quindi, anche nei confronti di tutti quei condannati che una volta rimpatriati nella nazione d’origine rischiano di vedersi annichiliti dal sistema penitenziario del proprio paese. Uno fra questi è la Romania dove permane, nonostante le condanne in sede di CEDU e i rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, una situazione di generale sovraffollamento che rende quasi inevitabile la sottoposizione dei detenuti a trattamenti inumani e degradanti per la violazione degli elementari standard minimi in termini di spazi (si è parlato in passato di celle con venti, trenta detenuti in 30 mq), d’igiene (massimo 3 docce la settimana), cibo e di cure mediche adeguate.