a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 14 ottobre la chiesa ricorda san Callisto I, 16° vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica. Nacque a Roma verso il 155, da una famiglia di schiavi d’origine greca che abitava la zona di Trastevere a Roma. Diventò cristiano all’inizio della sua vita d’adulto. Fu inizialmente al servizio di un alto funzionario dell’imperatore Lucio Elio Aurelio Commodo, nominato Carpofaro, anch’egli cristiano, che lo incaricò di amministrare i suoi beni. In relazione di affari con alcuni ebrei di Roma, fece cattive operazioni, si sconvolse, prese la fuga, fu finalmente recuperato e chiuso in una cella segreta. Il suo padrone, che lo stimava molto, lo fece rilasciare, pensando che sarebbe riuscito a recuperare il denaro perso. Era sul punto di realizzarsi quando penetrò in un giorno di sabbat (sabato della settimana ebraica) nella sinagoga, scompigliò l’ufficio che si celebrava e si fece mettere con severità alla porta dai partecipanti che lo consegnarono al prefetto Fusciano denunciandolo come cristiano. Fu, quindi, condannato alle miniere di zolfo in Sardegna per avere disturbato una riunione ebrea e perché cristiano. Lavorò durante 3 anni all’estrazione del minerale in Sardegna e là fu a fianco di molti martiri cristiani, esiliati come lui: dimostrò verso di loro una devozione ammirevole. Liberato e affrancato, verso il 190, passò alcuni anni ad Anzio. Zefirino fin dalla sua elezione come papa, nel 199, lo chiamò al suo servizio come segretario personale e, nominandolo arcidiacono della città, lo rese responsabile della direzione del clero e della creazione del primo cimitero cristiano che fece scavare nel tufo sulla via Appia; oggi chiamato “Catacombe di San Callisto”. Alla morte di Zefirino, nel 217, Callisto è eletto papa: lo rimase 5 anni 2 mesi e 10 giorni. Il suo breve pontificato fu tra i più difficili, segnato dall’opposizione di un sacerdote di Roma, Ippolito, brillante, ma eccessivo. Callisto difese contro di lui e qualche altro la fede trinitaria e fece prevalere l’uso di assolvere tutti i peccati, anche quelli che i rigoristi, come Tertulliano, consideravano imperdonabili: l’idolatria, l’adulterio e l’omicidio. Riconobbe come valido il matrimonio tra schiavi e donne libere (non ammesso come legale dal diritto romano) ed accettò il nuovo matrimonio dei vedovi e la loro entrata eventuale nel clero. Politica d’indulgenza generale che gli valse molte critiche: di fronte ai suoi oppositori, restò fermo e diede, senza stancarsi, l’immagine del buon pastore. Apprendendo che un cristiano era stato giustiziato, su ordine dell’imperatore Alessandro Severo, e gettato nel Tevere, Callisto si nascose sulle rive del fiume e con l’aiuto di alcuni pescatori e membri del clero, lo ritirò dalle acque, celebrando solennemente i suoi funerali nella sua catacombe di via Appia. Muore nel suo quartiere di Trastevere, vittima di una sommossa diretta contro i cristiani. Morì il 14 ottobre 222.
14 ottobre: san Domenico Loricato, sappiamo poco o nulla circa le sue origini e la sua nascita, ma si può ritenere con una certa sicurezza che sia nato nell’ultimo decennio del X secolo, in una località sul confine tra le Marche e l’Umbria, forse nei pressi di Gubbio, dove egli trascorse poi l’intera vita. San Pier Damiani, che era stato maestro ed amico di Domenico, poco dopo la morte di questo ne scrisse una vita. Destinato al sacerdozio, Domenico abbracciò per tempo la vita ecclesiastica e percorse i gradi della gerarchia dal chiericato sino al presbiterato, che ricevette intorno al 1015-1020. La sua ordinazione sacerdotale, tuttavia, fu rovinata dal sospetto di simonia: il vescovo, che lo aveva promosso al presbiterato, infatti, si era mostrato in un primo tempo restio a conferirgli gli ordini sacri, ma poi, dopo aver ricevuto una pelle di capra in dono dai genitori di Domenico, aveva finito col consacrare quest’ultimo sacerdote. Seppur estraneo all’accaduto e, non responsabile di esso, Domenico se ne sentì in qualche modo colpevole. Preferì rinunziare alla vocazione ed abbandonare il sacerdozio, e decise di divenire monaco, dedicando la sua esistenza all’espiazione del peccato di cui si era involontariamente macchiato. Entrò quindi nel monastero camaldolese di Luceoli e lì, sotto la guida di Giovanni da Montefeltro, si diede alla meditazione e all’ascesi. Ritiratosi poco tempo dopo nell’eremo annesso al monastero, iniziò quella serie di pratiche penitenziali per le quali sarebbe poi divenuto famoso in tutta la regione. Sebbene le abitudini dell’eremo di Luceoli fossero già sufficientemente rigide, egli si sottopose ad una disciplina ancor più ferrea, facendo della rinuncia e della penitenza la sua ragione di vita. Osservò un regime alimentare poverissimo, dormì sempre sulla nuda terra e pochissime ore per notte e soprattutto si sottopose per tutta la vita a terribili penitenze, pregando e flagellandosi di continuo, per il riscatto dei peccati propri e altrui: per più di 25 anni portò sulla nuda pelle una cotta di maglia di ferro (in latino lorica, da cui il soprannome), che non si tolse mai. Quando intorno al 1043 Pier Damiani si stabili definitivamente nel monastero di Fonte Avellana in diocesi di Gubbio, monastero di cui già da qualche anno era divenuto priore, anche Domenico si trasferì in quella fondazione camaldolese e ne divenne fedele discepolo ed amico. Intorno al 1049 Domenico venne destinato ad un nuovo eremo, quello della Santissima Trinità di Monte San Vicino, presso Frontale (Macerata), che era stato da poco fondato da Pier Damiani, divenuto nel frattempo priore generale della congregazione avellanita, di cui venne eletto priore. Dopo un breve soggiorno presso i monasteri di Fonte Avellana e di San Emiliano a Congiuntoli, nel 1059 Domenico tornò di nuovo alla Santissima Trinità di Monte San Vicino, probabilmente non più come priore, vi morì stremato dalle penitenze e dalle privazioni cui si era sottoposto per tutta la vita. Morì il 14 ottobre 1060.
714 ottobre: santa Fortunata di Cesarea, incerto è il periodo della sua nascita, si sa che visse nel 200 d.C. Figlia di un nobile patrizio di nome Telesio e di una certa Calpumia e dei loro quattro figli, Carponio, Evaristo, Prisciano e l’ultima nata Fortunata. Fu chiesta in sposa da un certo Crispino, ma la giovane rifiutò, anche contro il volere del padre, perché grazie alla nutrice Erecina, era stata battezzata dal vescovo Pascasio e si consacrò a Dio, dichiarando che l’unico amore e ideale della sua vita è Cristo. Un giorno alcuni soldati bussarono alla loro porta, obbligandoli a partecipare alla processione in onore degli dei; essi presero parte, ma né la madre né Fortunata e i fratelli offrirono l’incenso a Giove. Pochi giorni dopo furono arrestati e messi in carcere, qui hanno dovuto affrontare varie prove e supplizi, fino a raggiungere il martirio. Diversi manoscritti commemorano al 12 o al 15 ottobre santa Fortunata a Patria (oggi Torre di Patria), in Campania. Il Martirologio Romano, al 14 ottobre, menziona il martirio di Fortunata a Cesarea di Palestina durante la persecuzione di Diocleziano e aggiunge che il suo corpo fu in seguito trasportato a Napoli in Campania. Quest’ultima notizia proviene da una passio tardiva del X secolo, dovuta ad un certo prete Autperto, nella quale egli associa Fortunata a tre altri martiri, i fratelli: Carponio, Evaristo e Prisciano. Poiché i dati di Autperto sono incontrollabili, Fortunata Lanzoni aveva proposto di vedere in Fortunata la santa africana nominata da san Cipriano, le cui reliquie sarebbero state trasferite a Patria, poi a Napoli. Domenico Mallardo è di avviso contrario e anche se non apporti alcun argomento decisivo, appoggiandosi sul codice Epternacense, che dipende da una fonte campana anteriore alla metà del VII secolo, afferma che niente si oppone a vedere in Fortunata una vera martire della Campania. E a proposito del culto di Fortunata lo stesso autore scrive: «Nella seconda metà del secolo VIII, il vescovo di Napoli Stefano II trasportò “a Patriensi ecclesia” il culto di santa Fortunata nella chiesa a lei dedicata nel monastero di San Gaudioso»