Quando sono in difficoltà, davanti ad un problema di diversa natura e non riesco a dare una risposta, una spiegazione, ovvero, a prendere una posizione decisa, per la mia incapacità, impreparazione o altro elemento che dir si voglia, mi rifugio nel fatalismo o nella fede: così dovevano andare le cose, ovvero, cosi il Signore ha voluto che mi comportassi. In tal modo acquieto la coscienza che continua a lacerami e farmi soffrire: riconosco la mia viltà o la mia debolezza. Questa dagherrotipa rappresentazione del mio modo d’essere mi riporta, a lunedì u.s., nella Napoli bene di Piazza dei Martiri, nella soffusità letteraria della “Feltrinelli”, dove si coglievano, tra il numeroso pubblico accorso, due aspetti peculiari della vita cittadina napoletana: la pubblicazione del libro “MALACQUA“, tramite l’editore Pironti, e la commemorazione dell’autore, Nicola Pugliese, giornalista e scrittore. Il libro trovava testimoni e relatori, preparati e pronti a cogliere ogni riflessione anche la meno espressa, dilatandone aspetti, a prima vista, appena recepiti. L’analisi poi ha scavato anche l’animo dell’autore e il rapporto simbiotico con la città e il modello di vita, nonché il lavoro suo svolto quale giornalista della prestigiosa testata del Roma. Un attore napoletano ha saputo trasmettere le emozioni del contenuto letterario, leggendo a più riprese passi salienti del racconto di Pugliese che si snoda attraverso la rappresentazione di quattro giornate, di pioggia, di dolore e speranze, che videro Napoli, i napoletani e le cose di Napoli affiatate, confuse e spiegate in un solo respiro, umano e poetico. La figlia, prima, e il fratello, poi, dello scomparso autore, hanno saputo sottolineare i caratteri dell’uomo, non facile, introverso, insofferente, ma duttile e dolce nei rapporti con gli altri. Non si trascurava nella descrizione delle vicende personali dell’uomo, il fatto di aver abbandonato Napoli per seguire la figlia, trasferitasi in quel di Mugnano del Cardinale, perciò la scelta sua di posizionarsi ad Avella e qui trascorrere i tempi della sua conclusione terrena, veniva tacitamente accolta ma non esplicitata. Eravamo in molti ad essere li presenti , nei locali della Feltrinelli di Piazza dei Mariti, e tutti, dico tutti, chi più e chi meno, provenienti dalla sua ultima libera scelta residenziale terrena, avrebbero potuto esprimere un pensiero tributario della esperienza amicale dello scomparso. Tutti con lo scomparso autore di Malacqua, con il forestiero ciondolante tra il “Pasquino“ e l’abitazione di Via Roma, con l’artefice di lunghissime pause di tempo affidate al gioco della dama o degli scacchi, avrebbero potuto testimoniare il sentire di Nicola perché ognuno di noi con Nicola ha avuto un attimo di attenzione, un’occasione di dialogo, un motivo di racconto, una ragione per riflettere, un pensiero da conservare. Ma nessuno in quell’assise, dico nessuno degli avellani presenti, sentì il bisogno di alzarsi. Un fenomeno di catoblepismo mentale non ci consentì di alzare il pensiero e tributare ai presenti il fascino di un uomo solo che ad Avella non si trovava per caso, né per seguire la figlia che intanto rimaneva nella distante Mugnano del Cardinale. Questo è il mio pensiero e la mia deduzione: Nicola aveva scelto Avella per la sua posizione strategica essendo un paese posizionato all’interno delle grandi arterie stradali. Aveva scelto Avella per il silenzio che il paese sa offrire, per l’aria che si respira e per la dimensione umana che Nicola riusciva a cogliere a differenza degli indigeni. Ma la vera e forse la più drammatica ragione della scelta avellana, sta nel grande rifiuto operato nei confronti della città di Napoli, sorda e insensibile dell’amore offerto ed espresso alla città, che si coglie a piene mani leggendo l’opera omnia del suo autore. Una specie di mitridatizzazione aveva attaccato la persona di Nicola e finché ha potuto e ha saputo convivere con le specie tossiche della vita, ha saputo anche mascherare la calma, la tranquillità, stazionando davanti al “Pasquino” in compagnia della inseparabile sigaretta, oppure con l’amata moglie nell’attico di Via Roma ove alloggiava. No, in ultima analisi, devo convincermi che il silenzio di noi avellani non è da imputare alle ragioni espresse, né , lo stesso, è da attribuire alla sindrome che ho accennato in precedenza. Il silenzio ce lo ha dettato e imposto Nicola che non ha voluto condividere con i napoletani la pausa esistenziale che si era volutamente regalato. Amante della vita sana e vero indagatore dell’animo umano, nella riflessione avellana, forse, aveva trovato, Nicola, la luce necessaria per sopportare il faticoso fardello della verità sociale. E allora come la pioggia, regina del suo romanzo, il nostro silenzio si è calato sulla esistenza del caro amico scomparso.