I pronto soccorso italiani, specie quelli meridionali, si sà, vivono il quotidiano dramma del sovraffollamento a causa, soprattutto di deficenze strutturali e croniche, incancrenitesi con i continui tagli alla Sanità. Ciò però non deve mai giustificare la mancata applicazione dei protocolli sanitari che, ove correttamente applicati, possono nella gran parte dei casi salvare le vite o quantomeno non aggravare le conseguenze delle patologie. È questo l’orientamento della giurisprudenza che viene confermato anche da una sentenza della Cassazione penale, la 18100/17, pubblicata il 10 aprile che ha affrontato il caso della morte di un cittadino, deceduto in seguito ad un infarto, che vedeva imputato un infermiere “reo” di non aver applicato le linee guida del triage in un momento in cui il pronto soccorso risultava sovraffollato. I giudici della quarta sezione, hanno sì annullato senza rinvio la sentenza della Corte di appello di Roma per intervenuta prescrizione del reato, anche se nel corso delle indagini e del processo era emerso che il paramedico non aveva disposto un esame secondo le linee guida del triage, nonostante il codice giallo assegnato lo imponesse. La corte di secondo grado aveva condannato l’imputato sia alla pena di giustizia che al risarcimento in favore delle parti civili, rilevando che al momento in cui il paziente giunse al pronto soccorso, aveva già in atto un infarto e la colpevole sottovalutazione dei suoi problemi da parte dell’infermiere era costata la giacenza del malcapitato in attesa per circa due ore presso la struttura senza ricevere alcun tipo di cura. I giudici di legittimità, tuttavia, pur ritenendo sussistente il nesso tra il decesso e la condotta colposa omissiva del sanitario, ha rilevato l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Per quanto riguarda la condotta colposa del paramedico, gli ermellini hanno dedotto che questi aveva violato sia le linee guida del triage, sia le regole di «comune diligenza e perizia richieste agli infermieri professionali addetti al pronto soccorso, tenuto conto dei sintomi mostrati dal paziente (perdita di conoscenza; incontinenza urinaria) e della acquisita anamnesi familiare» come comprovato dalla circostanza secondo cui quando il paziente era stato prelevato da casa, i sanitari erano già stati edotti circa il precedente caso di infarto del padre, che corrispondeva alla patologia di cui soffriva l’uomo. Adeguata e logica era stata quindi la decisione della Corte d’Appello nel momento in cui ha affrontato il problema sollevato dalla difesa delle condizioni di sovraffollamento della struttura sanitaria, il giorno del fatto, che non hanno alcun rilievo, in quanto «non autorizzavano la declassificazione del triage rispetto ai codici di priorità gialli, che afferiscono a patologie degne di particolare attenzione». In tal senso, sempre i giudici di merito hanno correttamente sottolineato che «l’assegnazione di un corretto codice di priorità avrebbe comportato, secondo le indicazioni delle linee guida, l’effettuazione dell’elettrocardiogramma entro trenta minuti, evenienza che avrebbe consentito di intraprendere utilmente il corretto percorso diagnostico e terapeutico». Da ciò deriva che se l’imputato, nel rispetto del protocollo e delle linee guida del settore infermieristico, avesse assegnato il codice corretto, il paziente avrebbe potuto salvarsi se fosse stato sottoposto all’esame dell’elettrocardiogramma. Nessuna censura, quindi, alla Corte di appello in merito alla sussistenza della riferibilità causale del decesso del paziente. Una decisione che costituisce non solo una significativa conferma dell’orientamento richiamato, ma che contribuisce ad innalzare il livello d’attenzione di tutte le figure professionali demandate all’interno della filiera delle strutture dei pronto soccorso, e non solo i medici cui troppo spesso si punta il dito. Ciò al netto della gravissima situazione in cui versa la sanità d’emergenza, le cui principali colpe risiedono nella scarsità di risorse, personale e mezzi, che come detto sono dovute agli ingiustificati tagli al Nostro Welfare. Ad ogni modo, è bene ricordare, che le eventuali colpe dei sanitari, ricadono sempre sull’intera struttura presso cui ci si è rivolti, e con l’entrata in vigore della recente riforma della “responsabilità medica”, al di là degli eventuali profili penali, è possibile rivolgersi per il risarcimento dei danni subìti, in via diretta, presso le assicurazioni cui ogni nosocomio ha l’obbligo di stipulare una copertura adeguata.