“E si sogna un paradiso bizzarro, diverso da quello predicato dai preti; un paradiso di barbaro innamorato, rimbombante di baci, fra i lampeggiamenti del sole meridiano, fra il verdeggiamento delle macchie.” (Francesco Guerriero, Avella, Postura)
Salendo a Campimmo da San Celeste, tra alberi di castagne e ginestre, mentre la luna è alta nel cielo in pieno giorno, incontriamo una mucca da sola intenta a brucare nel prato. Il vento anche non forte non ci mette molto a piegare gli alberi sottili di questa collina nuda, l’incontro del giorno è un maggiolino. Prendendo un sentiero che discende nel bosco, scavandosi inizialmente nel terreno e mostrando i lapilli dovuti alle eruzioni del Vesuvio, si scende fino alla Valle delle Fontanelle. I giorni di ottobre s’inspirano insieme all’aria fredda che ondeggia avanti e indietro riportata dal vento, il suo movimento mi ricorda le onde del mare. Sul sentiero rose canine, pungitopo, moltissimi ciclamini. Non è tempo di more, ma i cespugli sono al loro posto e nelle estati di non molti anni fa ne mangiavo in continuazione. Qualcuna, rossa e immatura, si mostra episodicamente, Francesco Guerriero nel suo capitolo “Aria di monti”, nel libro dedicato ad Avella, li chiamava bottoni di rose. Quando il sentiero inizia a scendere troppo torniamo indietro, infine saliamo ai Tre Castagni, dove, come suggerisce il nome, ci sono tre castagni secolari, che non sono gli unici, perché il sentiero per il Campo di Summonte prosegue infatti segnato da altri castagni un po’ meno imponenti. Li precede un casotto-serbatoio della Bocca dell’Acqua, e ancora prima un punto panoramico che domina la valle.
Negli anni ’60 la zona di Campimmo non era stata oggetto di taglio e sul sentiero per le Fontanelle la catena del Partenio non era così ben visibile come ora. Da Cortabucci si mettevano in fila mio nonno e i suoi figli, allora bambini, nei periodi estivi di ritorno in licenza. Salivano a piedi alla Valle delle Fontanelle e da lì a Campimmo (670m); dove trovavano miriadi di fragole e si fermavano a raccoglierle, c’erano anche funghi ed altre leccornie. Da lì salivano poi ai Tre Castagni in altri 2 km e prendevano quella che era la strada più semplice per il Campo di Summonte. “La strada si è persa”, si diceva della via per il Campo di Summonte diretta attraverso la Valle, risalendo il fiume, che evitava Campimmo. La strada attraverso il vallone era franata e incespicata nel bosco, e la più facile era adesso questa che saliva prima a Campimmo e poi al Campo, aggirando così il vallone che sarebbe stato pieno di pericoli. Per tutto il percorso era stato calcolato un tempo di quattro ore, più altre quattro per tornare indietro.
Questa storia mi fa notare che sembra che ci sia qualcosa che lega Avella alle persone che vi sono nate, o che vi hanno vissuto anche solo per un breve periodo di tempo: nonostante l’evidente peggioramento dell’ambiente ed il fatto che si possa benissimo andare altrove, in luoghi probabilmente più belli e più puri, c’è sempre un momento della vita in cui si ha un ritorno alle sue montagne. Gli scritti di alcune persone, come il libro del Francesco Guerriero su Avella del 1888, un omaggio puramente romantico al suo luogo natio sebbene si fosse spostato a Napoli per esercitare la professione di avvocato, ma anche le scelte degli stessi avellani, come mio nonno che lavorava come maresciallo dei carabinieri prima in Trentino e poi in altre regioni d’Italia, non fanno che confermare ciò. Le montagne di Avella si legano all’immaginazione, colpevole la loro dolcezza.
E’ un periodo in cui c’è una strana luce, sembra tutto più bello, o forse sono io che ci vedo meglio, chi lo sa. Riferisco questo, ingenuamente, ad un mio interlocutore, quando torno a casa dopo Campimmo. Mai si dovrebbero comunicare agli altri alcune sensazioni che non hanno nulla di oggettivo. “Magari sei più felice, e ti sembra di vederci meglio”, mi risponde, e allora mi rendo conto dell’errore. “No.” – rispondo seccamente – “In realtà è tutto bruciato per gli incendi di quest’estate. E’ tutto disastrato. È solo la mia immaginazione collegata ai ricordi d’infanzia.” Distruggo tutto. Non so se vergognarmi, o complimentarmi con la mia testa per il lavoro di rielaborazione che fa.
Arrossisco per l’umanissimo e tipico amore per il luogo in cui si è cresciuti – non vorrei ammettere si tratti solo di questo, di essere finita come tutti in questa trappola dozzinale – e mi chiedo se una persona che vede oggi Avella per la prima volta, da adulta, potrebbe provare le stesse cose, se ci vedrebbe così bene, se noterebbe il profilo dei suoi monti, i raggi del sole sulle sue colline così come ho fatto io. Io spero di sì.
(Valentina Guerriero)