a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 25 giugno la chiesa san Massimo di Torino, nacque nel IV secolo in un’imprecisata provincia italiana dell’impero romano, viene considerato il fondatore dell’arcidiocesi Julia Augusta Taurinorum (Torino). Quando giunse in città, Massimo concentrò il suo impegno pastorale su tre aspetti della vita torinese di allora: eliminare l’eresia Ariana, colpevole di rigettare la divinità di Cristo, convertire i pagani al cristianesimo ed infine vegliare sulle anime dei cittadini torinesi. Gli eretici ariani non impegnarono il vescovo più di tanto, erano pochi e le abitudini di questi tendevano ad creare una forma di autoesclusione. Convertire i pagani si rilevò un compito facile. Torino era continuamente sotto assedio da parte dei barbari, i torinesi vivevano una continua condizione di terrore che divenne l’argomento principale del vescovo: la continua minaccia di invasioni, la crudeltà della vita erano segni dell’imminente fine, terrorizzato dai suoi sermoni, si convertiva al cristianesimo. Massimo era un vescovo esigente, duro nelle prediche, scontroso, collerico nei confronti dei suoi fedeli che amava sinceramente e spesso era costretto a motivarli, a dare un senso alla loro vita e alla loro fede. A loro chiedeva una fede sincera, una fede sentita e vissuta nella quotidianità attraverso le indicazioni che venivano impartite durante i sermoni. Attraverso le 118 prediche, che ci sono giunte, si capisce che Massimo non voleva una conversione di convenienza, ma piuttosto una conversione basata su impegni, rispetto delle cerimonie e una condotta di vita cristiana. Il digiuno, che provocò tante critiche da parte dei suoi fedeli, era l’unico mezzo per evocare l’aiuto di Dio contro le invasioni e trovare forza ed il coraggio per affrontare la durezza della vita. Quanto risparmiato doveva tramutarsi in elemosina ed essere destinato ai poveri, atto che rinnovava il battesimo dentro il fedele. Questi due atti rafforzati dalla preghiera, dalla penitenza e dalle veglie erano le migliori armi contro la durezza della vita e la perenne condizione di minaccia a cui era sottoposta una città che di pari passo doveva dotarsi di mura sempre più efficienti e di misure difensive costanti. Oltre all’importanza della fede Massimo era consapevole del ruolo anche politico e sociale che aveva la sua figura. Forte delle leggi imperiali che ponevano forti limiti al concubinato, Massimo esortava i cittadini a cacciare la concubina quando non sposati o a sposarla se non ancora impegnati nel vincolo del matrimonio. Fedele alla sua missione invitava le autorità civili a mettere in atto ogni possibile mezzo per eliminare il paganesimo che al di fuori le mura continuava ad essere la pratica religiosa più diffusa e accusava le stesse autorità di fare leggi, ma di non farle rispettare. Agli inviti spesso aggiungeva aspre critiche nei confronti delle autorità che vendevano le sentenze (simonia), riscuotevano le giuste tasse con troppa discrezionalità, pensavano solo ad arricchire le proprie famiglie e tolleravano i metodi aggressivi dei militari quando rivendicavano il diritto di preda. Morì nel 420 circa.
25 giugno: santa Febronia di Nisibis, nacque a Nisibis (odierna Nusaybin, Turchia) nel IV secolo. Rimasta orfana a 2 anni, cresce sotto le cure della zia Brienne e della religiosa Tomaide, crebbe in virtù e dottrina. Consacratasi al Signore, conduce una vita da penitente scandita dalla preghiera e dalla meditazione; rifulge per la conoscenza delle Sacre Scritture, e il suo particolare carisma nell’insegnamento della sacra dottrina, unito alla sua docilità ed umiltà, suscitano l’ammirazione, oltre che delle consorelle, di numerose donne della città. Una di queste, Ieria, ottenuto d’incontrarla personalmente, senza la tenda dietro la quale ella stava nascosta durante le visite, si converte e le rimane fedele per sempre. Intanto che la sua fama s’espande per tutta la regione, l’imperatore Diocleziano, per condurre la persecuzione contro i cristiani, invia al comando di un esercito il giovane Lisimaco accompagnato dallo zio Seleno. Ma mentre Seleno si pone a capo della persecuzione, Lisimaco tenta, insieme al cugino Primo, di portare in salvo i cristiani. Giunti nella città di Nisibis, i soldati romani spargono il terrore tra i cristiani, molti dei quali fuggono o si nascondono per timore di essere catturati e uccisi. Stessa reazione hanno pure le circa 90 consorelle della comunità dove vive Febronia; le quali, guidate da Eteria, nonostante le esortazioni della superiora Brienne, a perseverare nella fede; anche per non abbandonare Febronia, che giace ammalata; decidono comunque di lasciare la comunità e di disperdersi. Rimaste sole, le due anziane Brienne e Tomaide esortano Febronia ad accettare il martirio, sull’esempio delle tre sorelle Libia, Eutropia e Leonide, ed ella, nonostante la giovane, 20 anni, si mostra pronta alla prova. A nulla vale un tentativo di Primo e Lisimaco di salvare le tre religiose facendole fuggire di nascosto: Seleno, a cui era giunta la fama di Febronia, la fa catturare e portare nell’arena. Mentre Brienne rimane sul posto, Tomaide si reca, insieme con Ieria e ad una grande moltitudine, per lo più di cristiani, ad assistere al martirio. Nel corso dell’interrogatorio, il giudice Seleno tenta, prima con varie lusinghe, fra le quali il matrimonio con Lisimaco, poi con le minacce, di farla abiurare in favore delle divinità pagane; ma Febronia, respingendo ogni proposta, e per nulla turbata dalle terribili minacce, testimonia con determinazione la sua fede in Cristo. Terribile il lungo martirio al quale viene sottoposta, con modalità che lo rendono esemplare nella pratica dei più atroci supplizi: legata ad un palo, viene flagellata, arsa, scorticata; le vengono strappati sette denti, tagliate le mammelle, le mani ed i piedi ed infine viene decapitata. Morì il 25 giugno 305.