a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 3 novembre la chiesa celebra san Martino de Porres, (al secolo Martin de la Carité), nacque a Lima (Perù) il 9 dicembre 1579. Il padre, Juan de Porres, era un aristocratico spagnolo mentre la madre una ex schiava di origine africana, Anna Velàsquez. Il padre non ebbe mai gran cura del figlio. «Figlio di padre ignoto»: così lo registrano fra i battezzati nella chiesa di San Sebastiano a Lima. Anche se alcuni anni dopo il piccolo venne accolto dal padre, dovette vivere fra gli stenti con la madre e la sorellina Juana. Quando aveva circa 8 anni, il padre se ne fece una ragione e si decide al riconoscimento, tenendo con sé a Guayaquil in Ecuador i due piccoli, per qualche tempo. Nominato poi governatore del Panama, lascia la bimba ad un parente e Martino lo riportò dalla madre a Lima, lasciando il necessario per il vitto e l’educazione. Frequentando due vicini di casa, che esercitavano come farmacisti, Martino cominciò ad appassionarsi alla medicina. E la cosa continuò anche quando, praticando nella bottega di barbiere aggiunse quella di barbiere alle sue conoscenze chirurgiche. Martino chiede, a 15 anni, di entrare nell’Ordine dei Frati Predicatori (domenicani) che hanno fondato a Lima il loro primo convento peruviano, ma, essendo mulatto, non viene accolto come religioso con i voti ma solo come terziario. I suoi compiti sono di solito di inserviente e spazzino. Suo padre se ne indigna ma lui no, per nulla. Anzi, mentre suo padre va in giro con la spada, lui ama mostrarsi impugnando una scopa. Nei momenti di pausa cercava di essere utile alla comunità grazie alle suddette sue conoscenze in campo medico, non di rado aiutando proprio quelli che l’avevano deriso e offeso. Si racconta che, trovandosi il convento in gravi difficoltà finanziarie ed oppresso dai debiti, il priore uscì con alcuni oggetti preziosi allo scopo di venderli e col ricavato pagare i debiti, Martino rincorse e raggiunse il priore che stava andando alla piazza del mercato e gli propose di non vendere i preziosi del convento, ma di vendere lui stesso come schiavo. Comprendendo la grande umiltà del frate e il suo grande attaccamento al convento, il priore lo rimandò indietro, dicendogli: «Torna indietro, fratello, tu non sei da vendere». Questa sua dedizione all’Ordine, tutta la scienza dei Santi e tutta la sua preziosa opera in convento fu a spingere i superiori a non tenerlo più soltanto come “terziario”, ma a fargli emettere la professione solenne come frate converso, il 2 giugno 1603. Martino impresse allora alla sua vita una svolta più ascetica, con lunghe ore dinanzi a Santissimo Sacramento e flagellazioni notturne. Secondo alcune testimonianze, ebbe il dono di frequenti fenomeni mistici: bilocazione, levitazione, estasi, complessi argomenti di teologia senza averla mai studiata. Impedito di partire missionario in Giappone, dove sognava di versare il sangue per Cristo, mise al servizio dei sofferenti la sua pratica medica. Quando a Lima arriva la peste, Martino cura da solo i 60 confratelli e li salva tutti: per tutti è l’uomo dei miracoli. Si fece benefattore dei poveri indios che accorrevano a lui in gran numero, eresse un collegio per la gioventù abbandonata e si valse del suo ascendente per difendere dalle insidie le giovani prive di risorse economiche. Guarisce l’arcivescovo del Messico che vorrebbe condurlo con sé, ma Martino, però, non potrà partire; colpito da violente febbri, morì a Lima il 3 novembre 1639, a 59 anni, attorniato dai frati in preghiera; patrono dei barbieri e dei parrucchieri.
3 novembre: santa Silvia, nacque intorno al 520 d.C. a Roma, da una famiglia di modeste condizioni, ma discendente forse dall’illustre gens Octavia, aveva due sorelle: Emiliana e Tarsilla, anch’esse sante. Nel 538 sposò il senatore Gordiano, che apparteneva alla gens Anicia, nobile famiglia romana alla quale sembra sia da ascrivere anche san Benedetto. Una profonda intesa spirituale aiuta la coppia a costruire una famiglia veramente cristiana, illuminata dall’esempio delle sorelle di Gordiano, che vivono in casa una vita ritirata e mortificata, quasi monastica, intessuta di preghiere e di penitenza. La coppia andò ad abitare nella villa degli Anici sul colle Celio al Clivio di Scauro, dove oggi si trova la chiesa di San Gregorio al Celio. Ebbe due figli, il primogenito fu san Gregorio Magno, eletto al soglio pontificio nel 590, mentre dell’altro non è pervenuto il nome. Rimasta vedova intorno al 573, si ritirò in una casa sull’Aventino chiamata Cella Nova, seguendo la regola benedettina e dedicando il resto della sua vita alla preghiera, alla meditazione e all’aiuto dei malati e dei più bisognosi. I due figli hanno seguito le orme paterne, in modo particolare Gregorio, che diventò funzionario dell’Impero bizantino, arrivando a ricoprire la carica di Prefetto di Roma. Ma in cuor suo conserva però una profonda esigenza di vita spirituale e la segreta aspirazione di dedicarsi completamente alla preghiera e alla meditazione. La morte del padre accelera questa scelta definitiva ed egli trasforma la splendida villa paterna al Celio in un monastero e dove eresse una chiesa dedicata a sant’Andrea (l’attuale Oratorio di Sant’Andrea al Celio), in cui egli per primo come semplice monaco, seguito da molti giovani romani. La scelta di Gregorio fa capire a Silvia che ormai può considerare esaurita la dimensione domestica della sua vita e si ritira in una località dell’Aventino per potersi dedicare anche lei alla meditazione e alla preghiera. Ma in questo periodo sua madre si premura di fargli recapitare ogni giorno un pasto caldo, temendo che l’austerità della vita eremitica compromettesse ulteriormente la salute già cagionevole di Gregorio. Che intanto, per volere del papa, è stato ordinato diacono e sta servendo la Chiesa mettendo a frutto la sua vasta esperienza civile ed ecclesiastica, fino a che nel settembre 590 viene eletto papa. Silvia morì il 3 novembre 592; papa Gregorio la fece seppellire nel monastero di Sant’Andrea, nel sepolcro dove già si trovavano le cognate Tarsilla ed Emiliana, e vi fece dipingere la sua immagine con la croce nella destra e un libro nella sinistra recante la scritta: «Vivit anima mea et laudabit te, et iudicia tua adiuvabunt me» (Vive la mia anima e ti loderà, e i tuoi giudizi mi aiuteranno).
3 novembre: santa Ida di Fischingen (o Ida di Toggenburg), nacque a Kirchberg (Germania) nel 1140 circa. Secondo la leggenda Ida era la figlia di un conte di Kirchberg, vicino ad Ulma e sarebbe andata sposa al conte Heinrich di Toggenburg. Non conosciamo le vicende della sua infanzia, né a che età andò in sposa al conte, ma piuttosto che Dio l’allontanò dal mondo per un episodio molto strano. La contessa aveva uno stanzino al piano superiore del castello, dove aveva collocato in custodia un prezioso anello ricevuto in dono dal marito. La leggenda racconta, che un giorno, un corvo avrebbe rubato la fede nuziale ad Ida. L’anello fu ritrovato nascosto nel nido del volatile, in un casolare diroccato, da uno scudiero del conte, che se lo pose al dito, dicendosi fortunato per la buona sorte. Ma alcuni invidiosi, ne presero a motivo per calunniarlo presso il conte. Quando il marito lo vide nelle mani di quest’ultimo, incolpò la moglie di infedeltà. Egli, in preda all’ira, avrebbe quindi fatto uccidere il servo, facendolo legare ad un cavallo selvaggio e fatto trascinare per dirupi e precipizi, affinché fosse morto sfigurato. Eseguita l’ingiusta sentenza, si procedette contro Ida, che per suo ordine fu fatta precipitare dalla finestra della rocca. Grazie alla sua innocenza, e alla infinità bontà di Dio, nella caduta ella si sarebbe miracolosamente salvata, sostenuta dal suo Angelo custode. Salva dalla caduta, si inoltrò nella foresta dove costruì con le sue mani una piccola capanna come suo ritiro, dove visse per lungo tempo di radici selvatiche e dell’acqua della fonte. Ritrovata successivamente nel suo eremo, da un cacciatore che ne informò il conte, il quale accorse prontamente e l’errore si chiarì, ma Ida volle da allora dedicarsi a Dio come eremita. Per non essere ritrovata soggiornò nelle vicinanze dell’Abbazia di Fischingen, qui visse in austerità e solitudine, trascorrendo notti intere nella chiesa del monastero, condotta da un cervo che le faceva da guida. Solo in età avanzata si ritirò in una cella di clausura dell’abbazia, dove ella poi morì in odore di santità il 3 novembre 1226.