a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 28 settembre la chiesa celebra san Venceslao I re di Boemia, nacque a Stochow (Praga) nel 907 d.C., figlio di Vratislav I duca di Boemia. Cresciuto in un territorio dalle radici fortemente pagane, dove la religione cristiana era a quei tempi molto poco diffusa se non addirittura osteggiata, Venceslao, in seguito alla prematura scomparsa del padre e mentre la madre aveva assunto la reggenza temporanea del governo boemo, fu tuttavia educato al cristianesimo dalla nonna paterna Ludmilla (anch’essa poi divenuta santa) che si occupò di lui e del fratello durante l’infanzia e che seguì anche la sua formazione culturale, decisamente sopra la media per l’epoca e comprendente lo studio di numerosissimi testi latini e slavi. Secondo la tradizione Ludmilla fu fatta uccidere dalla stessa madre di Venceslao, Drahomíra, gelosa e fortemente contrariata dell’influenza che la suocera aveva sul suo primogenito. Una volta assunto il potere effettivo, nel 921, Venceslao si adopera per la cristianizzazione del Paese, chiamandovi missionari tedeschi, perché questo fa parte della sua linea generale di governo: avvicinare la Boemia all’Europa occidentale e alla sua cultura (anche se non mancano conflitti con regnanti germanici). La tradizione fa di lui un modello del coraggio: durante la lotta contro un duca boemo, Venceslao gli propone di risolvere la controversia con un duello tra loro due, in modo da non sacrificare tante vite di soldati; e il nemico si riconcilia con lui. La sua giovane età e il suo stile ne fanno un modello per molti suoi sudditi ma Venceslao dovette anche scontrarsi con quella parte di nobiltà, che insieme alla madre Drahomíra e al fratello minore Boleslao, era rimasta pagana. Il fratello Boleslao tentò più volte di ucciderlo e ci riuscì tramite alcuni sicari nel 935. Questi, non osando aggredire Venceslao a Praga, lo invita nel suo castello di Stará Boleslav (nell’attuale Repubblica Ceca). Si pensa di ucciderlo durante il pranzo, ma certe parole di Venceslao fanno temere che abbia scoperto il complotto. Lo si aspetta, allora, quando va in chiesa (da solo, come sempre) per recitarvi la Liturgia delle Ore e qui viene assassinato. Una leggenda dice che Boleslao tentò per primo di colpirlo, ma Venceslao reagì buttandolo a terra e facendogli cadere la spada che, poi, generosamente, raccolse e restituì al fratello in segno di perdono, un grande ed ultimo gesto di grandezza. Ma i sicari di Boleslao lo colpirono a morte tutti insieme, a Starà Boleslav (nell’attuale Repubblica Ceca), mentre moriva, si racconta che Venceslao, avrebbe detto: «Nelle tue mani, Signore, raccomando l’anima mia». Morì il 28 settembre 935; patrono della Repubblica Ceca e della Boemia.
28 settembre: san Lorenzo Rúiz, nacque a Binondo (Filippine) nel 1600 circa. Padre di famiglia, Lorenzo, era un catechista filippino, si unì ad un gruppo di missionari domenicani della provincia del Santo Rosario (Filippine) e svolse il suo apostolato presso vari paesi asiatici (Taiwan, Giappone). I sedici missionari contavano nove padri Domenicani, tre Fratelli religiosi domenicani, due Terziarie domenicane, di cui una anche Terziaria Agostiniana, due laici, di cui uno padre di famiglia, lo stesso Lorenzo. Avevano svolto apostolato attivo nel diffondere la fede cristiana nelle Isole Filippine, a Formosa e in Giappone; e appartenevano in diverso grado alla Provincia Domenicana del Santo Rosario, allora detta anche delle Filippine, la cui fondazione risaliva alle Missioni in Cina del 1587 e che al principio del 1600, aveva istituito una Vicaria in Giappone. Essi furono catturati a gruppi o singolarmente, e rinchiusi nel carcere di Nagasaki e in quel quinquennio (1633-1637), dopo essere stati sottoposti a vari tormenti, vennero messi a morte. Dal 1633 era stata introdotta una nuova tecnica crudele di supplizio, a cui venivano sottoposti i condannati e così lasciati morire e si chiamava “ana-tsurushi”, cioè della forca e della fossa: si sospendeva il condannato ad una trave di legno con il corpo e il capo all’ingiù, e rinchiuso in una buca sottostante fino alla cintola, riempita di rifiuti; lasciandolo agonizzare e soffocare man mano per giorni, ma dal 1634 i cristiani prima di subire questo martirio, venivano sottoposti ad atroci tormenti come l’acqua fatta ingurgitare in abbondanza e poi espulsa con violenza e poi con la trafittura di punte acuminate tra le unghie ed i polpastrelli delle mani. Nell’anno 1637 furono martirizzati padre Antonio González spagnolo, nato a León, morto il 24 settembre; poi padre Michele de Aozaraza, nato nel 1598 a Oñata (Guipuzcoa) in Spagna e padre Vincenzo Shiwozuka giapponese, morti il 29 settembre; insieme a loro anche i due laici Lorenzo Rúiz, sacrestano dei Domenicani e Lazzaro di Kyoto, giapponese. Morì il 29 settembre 1637.
28 settembre: beato Luigi Monza, nacque a Cislago (Varese) il 22 giugno 1898, da una famiglia contadina, le cui uniche ricchezze erano costituite dal lavoro, dal coraggio e dalla fede. Entrò in seminario all’età di 18 anni, dopo aver conosciuto la fatica del lavoro dei campi, le veglie notturne per proseguire gli studi e la lotta per la sopravvivenza quotidiana della povera gente. Nel 1916 ottiene un posto come prefetto presso il Collegio Villoresi San Giuseppe di Monza. Il 19 settembre 1925 ricevette l’ordinazione presbiterale, divenendo così sacerdote dell’arcidiocesi di Milano. Come primo impegno pastorale fu destinato ad occuparsi dei giovani dell’oratorio maschile della parrocchia di Vedano Olona. L’inizio del suo ministero sacerdotale fu contrassegnato da ogni sorta di prove, sino all’ingiustizia del carcere durante il regime fascista: accusato ingiustamente dai fascisti di aver organizzato un attentato al podestà locale, venne incarcerato insieme al parroco, per essere poi assolto e rilasciato quattro mesi dopo. Nel 1929 fu trasferito al santuario della Madonna dei miracoli in Saronno, dove fu animatore di parecchie iniziative giovanili. Dinnanzi ad un mondo ormai “divenuto pagano”, come amava dire, Luigi vide profeticamente nelle comunità dei primi cristiani, che vivevano come “un cuor solo e un’anima sola”, un ideale sociale in cui la carità era la prima ed irrinunciabile regola di convivenza umana, quindi il mezzo più idoneo per annunziare all’uomo contemporaneo il Vangelo di Cristo. I cristiani all’interno della società dovevano costituire presenze vive e testimoni di amore, ma dal di dentro nella vita di ogni giorno e nell’attività professionale di ognuno. Nel 1936 fu inviato nella parrocchia di San Giovanni alla Castagna di Lecco. Qui si dimostrò sempre disponibile e vicino ai poveri, ai malati ed a chi come lui subiva ingiustamente persecuzioni ed angherie. Durante la seconda guerra mondiale si prodigò particolarmente per i suoi parrocchiani impegnati al fronte. Lungi dall’immischiarsi nella politica, nascose e mise in salvo parecchi partigiani, ma durante la liberazione si fece anche difensore dei fascisti militanti e collaborazionisti oggetto di violenza. Sin dal 1937, quando era ormai chiara la strada che il Signore gli indicava, era nato dal suo cuore l’Istituto Secolare delle Piccole Apostole della Carità, chiamate a portare nel mondo la pienezza di vita consacrata all’amore totale di Cristo con il fervore apostolico della prima comunità cristiana. Dopo un iniziale periodo di ricerca su come poter concretizzare al meglio questo ideale, Luigi e le sue Piccole Apostole diedero vita all’associazione “La Nostra Famiglia”. Tale associazione è finalizzata all’assistenza sociosanitaria, all’istruzione e formazione, in particolar modo delle persone diversamente abili, soprattutto bambini, i quali vengono educati con le migliori tecniche medico-scientifico-pedagogiche. Luigi purtroppo non vide con i suoi occhi il reale sviluppo delle sue creazioni; venne colpito da infarto, silenziosamente si spense, come il chicco di grano che muore nella terra per dar vita ad una rigogliosa spiga, cosciente però di avere svolto il suo ruolo e di aver dato alla sua comunità le coordinate ben precise di partenza e di arrivo: una linea ascendente verso Dio. In quegli anni si accentuarono i disturbi cardiaci di cui Luigi soffriva da tempo, aggravati sicuramente dal dolore per la perdita della madre, avvenuta il 17 aprile 1953. Il 25 agosto 1954, di ritorno dalla casa di Varazze, iniziò ad accusare alcuni dolori che nel giro di poche ore peggiorarono. Il medico lo fece ricoverare all’ospedale per un elettrocardiogramma. L’esito non lasciò dubbi: infarto in atto. Le condizioni peggiorarono. Morì il 29 settembre 1954.
28 settembre: Servo di Dio Giovanni Paolo I (Albino Luciani), 263º vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica; nacque a Canale d’Agordo (Belluno) il 17 ottobre 1912. La fanciullezza di Albino si era svolta tra la bellezza delle valli e delle montagne del suo paese natale, nelle sofferenze della Prima Guerra Mondiale e la povertà di una famiglia contadina. A 10 anni era nata la sua vocazione sacerdotale, per la predicazione di un frate cappuccino. Nell’ottobre del 1923 entrò nel seminario minore di Feltre e in seguito, nel 1928, nel seminario maggiore di Belluno. Fu ordinato sacerdote il 7 luglio 1935 a Belluno. Il 27 febbraio 1947 si laureò in sacra teologia alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Nel 1954 divenne vicario generale della diocesi di Belluno; il 30 giugno 1956 fu nominato canonico della cattedrale di Belluno. In questi anni gli fu erroneamente diagnosticata una tubercolosi incurabile e per questo fu costretto a lasciare la parrocchia e a recarsi in sanatorio a Sondalo, in Valtellina, dove i medici si accorsero dell’errore dei colleghi, curando la vera malattia: una polmonite. Luciani fu diverse volte proposto per la nomina a vescovo, ma venne respinto per due volte a causa delle sue condizioni di salute, della sua voce flebile, della sua bassa statura e del suo aspetto dimesso. Dopo l’ascesa di papa Giovanni XXIII, il 15 dicembre 1958, fu promosso vescovo di Vittorio Veneto. Negli anni di episcopato a Vittorio Veneto mostrò insuperabili doti di catechista, per la sua capacità di farsi comprendere da tutti, anche dai bambini e dalle persone di poca cultura, per la sua chiarezza nell’esporre, la sua capacità di sintesi e la sua tendenza ad evitare discorsi e letture difficili, nonostante la profonda cultura che aveva. Il vescovo Luciani partecipò a tutte le quattro sessioni del Concilio Vaticano II, intervenendo e facendosi così conoscere tra i ranghi della Chiesa cattolica. Il 15 dicembre 1969 papa Paolo VI lo nominò Patriarca di Venezia. Sin dal suo insediamento a Venezia, portò sempre il classico abito scuro da sacerdote, indossando di rado la fascia cremisi da vescovo e poi rossa da cardinale e attirandosi così molte critiche dai fedeli zelanti veneziani. Era un’altra prova del suo ricercare la semplicità. Nel 1971 venne nominato vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana, carica che manterrà fino al 2 giugno 1975. Il 16 settembre del 1972 il Patriarca Luciani ricevette Paolo VI in visita pastorale. Il 5 marzo 1973 venne creato cardinale del titolo di San Marco a Roma. Il cardinale Luciani lasciò Venezia il 10 agosto 1978 per il conclave dal quale sarebbe uscito papa il 26 agosto, al secondo giorno di votazione fu eletto prendendo il nome di Giovanni Paolo I. Il suo ministero iniziò il 3 settembre con una messa celebrata nella piazza antistante la basilica, ed è durato 33 giorni. Fu il primo papa a parlare di sé in termini umani e non ebbe remore nell’ammettere con inusitata umiltà la timidezza del suo carattere, ricordando pubblicamente il momento in cui, ancora patriarca di Venezia, Paolo VI gli aveva messo sulle spalle la stola papale facendolo diventare “rosso per la vergogna”, nonché la paura che lo colse quando si rese conto di essere stato eletto papa. Morì il 28 settembre 1978, a 66 anni