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a cura di don Riccardo Pecchia
Oggi 31 gennaio la chiesa celebra san Ciro di Alessandria, nacque intorno all’anno 250 ad Alessandria d’Egitto, da famiglia cristiana. Alessandria d’Egitto allora era una delle città più importanti dell’antichità, centro culturale e fiorente, perché, posta tra l’oriente e l’occidente, famosa era la sua Biblioteca, prima che venisse distrutta dagli arabi. Le scarse e frammentarie notizie biografiche che ci restano su san Ciro, sono a noi pervenute per tradizione orale, soprattutto grazie a una “passio” del VII secolo, attribuita al patriarca di Gerusalemme san Sofronio, autore degli Atti dei santi martiri alessandrini Ciro e Giovanni. Ciro studiò medicina nella sua città. Qui aveva sede una celebre scuola di medicina, dove aveva studiato anche il famoso Claudio Galeno. Divenuto medico in quella scuola, Ciro aprì nel rione Doryzim un ambulatorio con laboratorio. Ciro, come racconta san Sofronio, era un medico valente, che gestiva una sorta di ambulatorio dove somministrava cure gratuite ai poveri, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “anàrgiro” (dal greco anargyros, senza denaro), e incitava i malati a trovare conforto nella fede e nella preghiera. Ridonava la salute tanto ai corpi quanto alle anime e convertì molti pagani al cristianesimo. Nel 299 i medici alessandrini, accusati di magia e stregoneria, divennero bersaglio di una violenta sommossa popolare e, dato che gravava su di essi il sospetto di cospirare contro l’impero, l’imperatore Diocleziano decise di perseguitare chiunque svolgesse attività “curative” senza autorizzazione, senza distinguere tra medici e maghi e tutti i trattati di medicina esistenti all’epoca vennero dati alle fiamme. Ciro fu costretto a lasciare la città, ritirandosi in Arabia Petrea, presso la piccola oasi di Ceutzo, dedito alla vita eremitica di preghiera e penitenza, nella più completa solitudine. Il suo primo discepolo fu san Giovanni di Edessa che, abbandonati gli onori della carriera militare, lo seguì nel deserto, restando con lui 4 anni. Nel 303 d.C., Diocleziano emanò un editto di persecuzione contro i cristiani ed ebbe inizio un periodo rimasto tragicamente noto come l’Era dei Martiri. A queste notizie Ciro e Giovanni decisero di lasciare il proprio eremo e si portarono a Canopo per confortare una madre, Atanasia, e le sue 3 figlie, Teatista di 15 anni, Teodota di 13 ed Eudosia di 11, condannate al martirio per non aver voluto rinnegare la fede cristiana, sacrificando agli dei. Essi furono scoperti e accusati di insinuare alle donne arrestate il disprezzo per gli dei e il loro culto. Vennero portati presso il prefetto Siriano, il quale comandò che venissero torturati se non avessero ritrattato la fede cattolica. Così, alla presenza delle donne e con lo scopo di intimorirle, essi vennero condannati alla morte più atroce. I supplizi loro inferti furono tra quelli più conosciuti all’epoca: flagelli, chiodi, ustioni con torce ai fianchi, pece bollente, versamento di sale e aceto sulle piaghe. Ma le donne alessandrine, confortate dal loro esempio, rifiutarono di rinunciare alla propria fede e vennero spietatamente trucidate. Subito dopo Ciro e Giovanni, furono decapitati il 31 gennaio 303.
31 gennaio: san Giovanni Bosco, nacque ai Becchi, frazione di Castelnuovo d’Asti (ora Castelnuovo Don Bosco) il 16 agosto 1815, in una famiglia contadina. Il padre Francesco, che aveva sposato in seconde nozze Margherita Occhiena, morì quando lui aveva 2 anni e in casa non mancarono certo le difficoltà anche perché il fratellastro Antonio era contrario a far studiare il ragazzino che dimostrava una intelligenza non comune. A 9 anni, Giovanni fece un sogno, che egli stesso definì “profetico”, e che gli svelò la missione a cui lo chiamava il Signore: si trovò in mezzo a dei ragazzi che bestemmiavano, urlavano e litigavano e mentre lui si avventava contro di loro con pugni e calci per farli smettere, vide davanti a sé un uomo dal volto luminosissimo che gli si presentò dicendo: «Non con le percosse, ma con la mansuetudine e con la carità dovrai guadagnare questi tuoi amici». In seguito a quel sogno, Giovanni decise di seguire la strada del sacerdozio. Dopo la prima comunione, il 26 marzo 1826, per sottrarsi alle prepotenze del fratellastro, dovette andarsene da casa, lavorando come garzone a Moncucco Torinese presso la cascina dei coniugi Moglia. Lì, nel novembre 1829, di ritorno da una missione predicata a Buttigliera d’Asti, si imbatté in don Giovanni Calosso, cappellano di Morialdo il quale, saputo da dove veniva, gli chiese di dire qualcosa sulla predica che aveva ascoltato e il ragazzo gliela ripeté interamente. Il sacerdote, stupito, si impegnò ad aiutarlo negli studi dandogli le prime lezioni di latino e prepararlo così alla vita del sacerdote. Purtroppo, nel 1831, il prete morì un anno dopo e Giovanni poté tornare a casa e riprendere a studiare, terminando in quattro anni le elementari e il ginnasio. Si pagava la scuola facendo ogni sorta di mestieri: sarto, barista, falegname, calzolaio, apprendista fabbro. Il 25 ottobre 1835, a 20 anni entrò nel seminario di Chieri rimanendovi sei anni e il 5 giugno 1841 fu ordinato sacerdote. Subito dopo, su consiglio di san Giuseppe Cafasso, passò al Convitto Ecclesiastico di Torino per perfezionarsi in teologia morale e prepararsi al ministero. E nella vicina chiesa di San Francesco d’Assisi l’8 dicembre di quello stesso anno cominciò il suo apostolato facendo amicizia con un giovane muratore, Bartolomeo Garelli, che era stato maltrattato dal sacrista perché non sapeva servire la messa. Giovanni gli fece recitare un’Ave Maria e lo invitò a tornare da lui con i suoi amici. Nacque così l’oratorio. Inizialmente, le riunioni avvenivano nell’Ospedaletto di Santa Filomena per bambine disabili, che si stava costruendo a Valdocco per iniziativa della Serva di Dio Giulia Colbert, marchesa di Barolo, perché Giovanni era stato assunto dalla marchesa come cappellano del “Rifugio”, una struttura realizzata da lei per favorire il reinserimento nella società di ex detenute e per salvare dalla strada le ragazze a rischio. Una stanza dell’Ospedaletto fu trasformata in cappella e dedicata a san Francesco di Sales, di cui la marchesa aveva fatto dipingere l’immagine su una parete. Qualche anno dopo sarebbe nata la Congregazione Salesiana al servizio della gioventù. Nel suo instancabile apostolato educativo, il santo trovava anche il tempo di scrivere numerosi libri per la gioventù. Nel 1868 era stata consacrata a Valdocco la basilica di Maria Ausiliatrice, quattro anni dopo, ispirato all’alto, realizzava un altro monumento alla Vergine, fondando l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice per l’educazione della gioventù femminile. Nel 1880 Leone XIII affidò al santo la costruzione del tempio del Sacro Cuore a Roma. Fece appena in tempo a recarsi a Roma per l’inaugurazione della basilica del Sacro Cuore, mentre si aggravavano le sue condizioni di salute. Morì il 31 gennaio 1888.
31 gennaio: san Francesco Saverio Bianchi, nacque ad Arpino, (Frosinone), il 2 dicembre 1743. Studiò nel Seminario di Nola e all’Università di Napoli, vinta la resistenza dei genitori, volle farsi sacerdote e nel 1762 entrò nell’Ordine dei Chierici Regolari di San Paolo (barnabiti). Fece il suo noviziato a Zagarolo, nel Collegio annesso alla Chiesa della Santissima Annunziata, professando i voti il 27 dicembre 1763. Proseguì gli studi a Macerata, poi a Roma e infine a Napoli, dove fu ordinato sacerdote nel 1767. Insegnò nel Collegio di Arpino per circa due anni e fu poi inviato al “Collegio San Carlo” di Napoli, dove insegnò filosofia e matematica. La sua vasta cultura gli permise di ricoprire incarichi via via più importanti: superiore per 12 anni del Collegio di Santa Maria in Cosmedin a Portanova; professore straordinario dal 1778 nella Regia Università di Napoli; socio della Reale Accademia di Scienze e Lettere e dell’Accademia Ecclesiastica. L’intensa attività nell’ambito culturale non gli impedì però di vivere in sintonia con la sua vocazione religiosa. Continuò sempre a svolgere importanti incarichi nella sua Congregazione e a farsi promotore di opere di carità, tanto da essere molto stimato nella capitale partenopea. Con il trascorrere degli anni la sua vocazione si orientò verso il misticismo. I suoi biografi fanno iniziare questo periodo a partire dalla Pentecoste del 1800, quando si trovò in estasi davanti al Santissimo Sacramento. La sua fama di santità crebbe anche per la coraggiosa sopportazione di un male misterioso alle gambe che lo costrinse su una poltrona negli ultimi tredici anni di vita, anzi, negli ultimi tre anni riuscì prodigiosamente a celebrare Messa reggendosi in piedi sulle gambe gonfie e piagate. Fu confessore di Carlo Emanuele IV di Savoia, di sua moglie Maria Clotilde e di numerosi cardinali e vescovi. Da lui traggono consigli spirituali santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe e tanti altri. La sua fama lo portò ad essere chiamato “santo” e “Apostolo di Napoli” mentre era ancora in vita e si disse che un suo gesto di benedizione avesse fermato la lava del Vesuvio durante le eruzioni di 1804 e 1805. Negli ultimi tre anni il suo male si aggravò, le sue gambe si riempirono di piaghe fino ad impedirgli ogni movimento. Morì il 31 gennaio 1815.
31 gennaio: san Geminiano di Modena, nacque a Cognento (Modena) il 15 gennaio 312, da una nobile famiglia del modenese. Terminati gli studi intraprese la carriera ecclesiastica combattendo fermamente l’eresia ariana. Fu diacono del vescovo Antonio al quale successe come vescovo di Modena, nel 350, divenendo molto amato tra i fedeli che gli attribuirono il potere di sconfiggere i demoni. Si racconta che questa sua fama fosse giunta fino alla corte di Costantinopoli, dove l’Imperatore Gioviano lo convocò per guarire la figlia posseduta. Oltre che per il suo viaggio in Oriente Geminiano è famoso anche per un’altra leggenda: nel 452 Attila, Re degli Unni disceso dal Nord Europa alla conquista della penisola italiana, si apprestava a mettere a ferro e fuoco Modena. Gli abitanti invocarono allora l’aiuto del santo vescovo e miracolosamente la città fu avvolta da una fitta nebbia; Attila non riuscì a individuarla e proseguì la sua marcia verso Sud. Nel 390 fu presente al concilio dei vescovi dell’Italia settentrionale, presieduto da sant’Ambrogio di Milano per condannare il monaco eretico Gioviniano, che sosteneva l’inutilità dei digiuni ascetici fatti senza fede e diventati ormai puro ritualismo, l’inutilità del celibato e negò infine la perpetua verginità di Maria. Fu molto impegnato, insieme ad altri vescovi della Romagna a combattere l’eresia ariana, molto diffusa in quella zona. Morì a Modena il 31 gennaio 397.
31 gennaio: beata Maria Cristina di Savoia, nacque a Cagliari il 14 novembre 1812, era la figlia minore di Vittorio Emanuele I, re di Sardegna, e dell’arciduchessa Maria Teresa d’Austria, esuli in Sardegna in seguito all’annessione del Piemonte alla Francia napoleonica. Nel maggio del 1814, col mutare del quadro politico in seguito all’abdicazione di Napoleone, Vittorio Emanuele I tornò a Torino, dove nel 1815 lo raggiunse Maria Teresa, reggente nell’isola, con la famiglia. Vittorio Emanuele I morì nel gennaio 1824, Maria Cristina si trasferì con la madre a Genova, dove visse sei anni intervallando il soggiorno coi viaggi presso le sorelle. Il re di Napoli Francesco I l’aveva presa in considerazione come possibile sposa per il proprio figlio Ferdinando (futuro Ferdinando II), insieme ad altre candidature. Sembra che già dal 1817 si fosse pensato a un’unione, quando Ferdinando aveva 7 anni e lei 5. Ferdinando si affezionò all’idea delle nozze, ancor prima di salire al trono nel 1830; ma vi erano perplessità da parte della madre di lei, sia per notizie poco rassicuranti sulla salute del principe napoletano, soffriva di epilessia, sia per le voci sui suoi rapporti con una ballerina. Ferdinando poteva però contare sull’appoggio di Carlo Alberto, a sua volta re di Sardegna dal 1831. Alla fine, dopo tiremmolla diplomatici di varia natura, ma soprattutto dopo la morte della madre, Maria Cristina, pressata da Carlo Alberto e dal confessore della defunta genitrice, l’olivetano padre Gianbattista Terzi, vinse gli scrupoli religiosi per il matrimonio e accettò. Sposò Ferdinando II, il 21 novembre 1832, nel santuario di Nostra Signora dell’Acquasanta a Genova. Maria Cristina era di sentimenti religiosissimi ed estremamente devota: cristiana fervente, si trovò a vivere in una corte il cui stile di vita era molto lontano dalla sua sensibilità. Con il marito, esuberante, vi era qualche difficoltà di relazione, ma la donna riuscì a ingentilirne, se non i costumi, rendendolo più riservato e rispettato, più mite verso i condannati a morte, più semplice nei rapporti. Dopo tre anni di matrimonio, la mancanza di un figlio faceva soffrire Maria Cristina, che pregava senza posa per ottenere quella grazia. Finalmente, nel 1835, avvertì il sorgere della gravidanza. Passò gli ultimi mesi nella reggia di Portici ch’era luogo più sereno di Napoli. L’erede al trono, il futuro Francesco II, nacque il 16 gennaio 1836. Morì il 31 gennaio 1836, per complicazioni sopravvenute dopo il parto, a soli 23 anni.
31 gennaio: beata Ludovica Albertoni, nacque a Roma nel 1473, da nobile famiglia. Rimasta orfana di padre all’età di 2 anni, viene affidata alle cure delle zie paterne dalle quali apprende i rudimenti della vita cristiana e una formazione culturale degna della sua posizione. Superata l’adolescenza si sposò con il nobile Giacomo de Citara, uomo dal carattere rude, da cui ebbe tre figlie. Nel rione di Trastevere, dove trascorrerà gran parte della sua esistenza, ha modo di frequentare la Chiesa di San Francesco a Ripa accostandosi alla spiritualità francescana. Dal matrimonio nascono tre figli. A causa del brusco temperamento del marito l’unione è turbolenta, ma Ludovica la vive con sacrificio e generosità confidando nella grazia sacramentale del matrimonio. Giacomo è un cattivo amministratore del patrimonio familiare tanto che, ammalatosi gravemente, è costretto a disporre nel testamento la ricostituzione della dote di Ludovica. Dopo 12 anni di difficile convivenza, alla morte di lui, avvenuta nel maggio 1506, il fratello Domenico, amministratore dell’eredità, non rispetta il diritto di successione a favore della cognata e delle nipoti aprendo così una lunga e penosa controversia. Ludovica, dimentica della sua fragile condizione di vedova, combatte strenuamente perché la legge venga applicata senza indugio ottenendo, alla fine l’eredità dovutale. Assolto ogni dovere familiare, dopo aver diviso i beni tra le figlie, Ludovica abbraccia la Regola del Terz’Ordine di San Francesco e dedica il resto della sua vita nella cura dei poveri. La guidano nel suo cammino spirituale i frati minori di San Francesco a Ripa che, proprio in quegli anni impegnati in un movimento di ritorno alle origini della vita francescana, che di tanto giovamento sarebbe stato per la Chiesa intera. Ludovica abbraccia con tutta se stessa “madonna povertà”, mistica sposa di san Francesco d’Assisi, e, rinunciando ad ogni privilegio ed agiatezza della sua condizione sociale, dona ogni cosa ai poveri e ne condivide i disagi, nella sequela del Vangelo di Cristo. Straordinario il suo impegno nei confronti delle ragazze in difficoltà, per le quali si adoperava al punto da strapparle coraggiosamente alla strada e all’emarginazione, insegnando loro un onesto lavoro ed elevandole culturalmente. Si prodiga per alleviare le sofferenze del popolo romano provato dal tremendo sacco lanzichenecco del 1527. In tale occasione viene chiamata “madre dei poveri”. Nella sequela della spiritualità francescana e grazie alla preghiera quotidiana, Ludovica riesce a compiere la sua straordinaria missione di cristiana e di cittadina romana. Nella sua intensa vita, Ludovica è stata un riferimento costante per la società civile così come per i prelati della Chiesa romana. Nel dicembre 1532, Ludovica, già malata da tempo, si aggrava. Unico suo compagno è il Crocifisso che stringe fra le mani e affidandosi alla Vergine Maria si congeda da questo mondo con le parole di Gesù: «Signore nelle tue mani affido il mio spirito». Morì il 31 gennaio 1533, all’età di 60 anni.